OSSERVAZIONI LINGUISTICO-INTERPRETATIVE SUL TERMINE "PIENA DI GRAZIA" NELLA NARRAZIONE EVANGELICA DELL’ANNUNCIAZIONE SECONDO LUCA NELL’ORIGINARIA VERSIONE IN LINGUA GRECA (Lc 1,26 – 32).

Nel sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città della Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine promessa sposa di un uomo della casa di Davide, chiamato Giuseppe. La vergine si chiamava Maria. Entrando da lei, disse: "Ti saluto, o piena di grazia, il Signore è con te". A queste parole ella rimase turbata e si domandava che senso avesse un tale saluto. L’angelo le disse: "Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo[…]" (Lc 1,26 – 32).


Il passo sopracitato del Vangelo secondo Luca merita una nostra attenta riflessione riguardo ad un termine che l’evangelista ha scelto e all’aspetto del verbo con il quale ha voluto connotarlo inserendolo nel suo Vangelo.

Il termine in questione riguarda la locuzione "piena di grazia", desunto dal latino gratia plena, che a sua volta si rifà al termine greco kecariqome?ne che noi per comodità traslitteriamo con i nostri caratteri kecarithoméne e che sarà oggetto del presente studio.

Riguardo a questo termine bisogna fare due importanti osservazioni preliminari:

  1. Esso è non un semplice sostantivo, ma un participio sostantivato, ossia un participio che funge da sostantivo, dal verbo carito?w (caritόo), che significa gratificare, favorire.
  2. Questo participio è al perfetto (uno dei tempi verbali del greco antico) e in forma passiva.

Fatte queste premesse si cercherà di capire più in profondità quale incidenza ha questo termine sul senso del brano evangelico che abbiamo citato all’inizio.

Sappiamo che dato un verbo, per esempio nel nostro caso gratificare, in forma attiva fa rispettivamente gratificante al participio presente, gratificato al participio passato. La forma passiva dei due participi suddetti fa, invece, rispettivamente che è gratificante, che è stato gratificato. Quest’ultima traduzione è quella più vicina al termine greco del passo evangelico.

Tuttavia, bisogna fare delle ulteriori precisazioni per capire pienamente il significato del termine che stiamo analizzando. Per fare ciò è necessario addentrarci nella grammatica greca, in particolare nella morfologia verbale, un campo un po’ difficile per quei lettori non addetti ai lavori, tuttavia, con semplicità di termini e con qualche piccolo esempio cercheremo di guidarli in modo che non trovino difficoltà di comprensione.(1)

Nel greco i verbi più che porre l’attenzione sul tempo (presente, passato, futuro), come il latino ed anche l’italiano, si concentrano sull’aspetto, cioè il modo come il parlante vede ciò che è espresso dal verbo. Ci spieghiamo con degli esempi:

Il cavaliere attraversava la strada.

Il cavaliere attraversò la strada.

Nelle due frasi i verbi uno all’imperfetto "attraversava", l’altro al passato remoto "attraversò" (in greco si tratta dell’aoristo), descrivono sì azioni avvenute nel passato, ma nel primo esempio il greco descrive l’azione nel suo svolgimento (stava attraversando, ma non è detto che portò a compimento quell’azione, potrebbe essere tornato indietro, potrebbe essere caduto, ecc.), nel secondo esempio, invece, il greco descrive l’azione come già avvenuta e compiuta.

Quindi, il primo concentra l’attenzione sullo svolgimento dell’azione nella sua durata (aspetto durativo), il secondo si concentra sul punto in cui l’azione si trova ormai compiuta (aspetto puntuale). Da qui provengono i due fondamentali e contrapposti aspetti del verbo greco: l’aspetto durativo e l’aspetto puntuale. A questo se ne aggiunge un terzo: l’aspetto stativo, che viene espresso dal tempo che in greco si chiama perfetto che è a sé stante, almeno originariamente, ed è quello che qui più ci interessa.

L’aspetto stativo, che in greco viene espresso dal perfetto, non indica propriamente l’azione, ma lo stato che consegue ad essa e che soprattutto permane. Per esempio:

Sono libero (come conseguenza di essere stato liberato).

Non ci si può confondere tra l’aspetto stativo e quello puntuale. Infatti, se nel caso del cavaliere che attraversò il fiume non viene espresso uno stato permanente, ma momentaneo perché, dopo aver attraversato, il cavaliere ha fatto sicuramente qualcos’altro, nell’espressione "sono libero" viene indicato uno stato di fatto che permane, come dire ad esempio: sono vivo, sono un uomo, il latte è coagulato, ecc.

Ma il perfetto – al contrario del presente e dell’aoristo, che hanno conservato immutato il loro valore aspettuale fino al greco moderno – nel corso dei secoli si è profondamente modificato. In questa sua evoluzione storica possiamo cogliere due fasi:

  1. Perfetto arcaico (da omero a quasi tutto il V secolo a.C.) intransitivo – stativo.
  2. Nel perfetto arcaico si esprime, come abbiamo già accennato, lo stato in cui si trova il soggetto in conseguenza di un’azione passata. Indicando uno stato del soggetto, dunque, il verbo è intransitivo (2). Sul piano temporale, poi, si colloca nel presente, poiché attribuisce più importanza allo stato presente che all’azione passata che lo ha determinato. Come si è detto nell’esempio: Sono libero (come conseguenza di essere stato liberato).

  3. Perfetto classico (dalla fine del V secolo in poi) transitivo – resultativo.

È la fase che qui ci interessa. A partire dalla fine del V secolo a.C. il perfetto incomincia ad avere un complemento oggetto, diventando transitivo. A questo punto esso acquista valore resultativo: indica, cioè, lo stato presente a cui è stato condotto l’oggetto, ma nel frattempo tende ad attribuire maggiore importanza all’azione anteriore che ha prodotto il risultato presente. Perciò, guarda pure verso il passato al contrario dello stativo che guarda più verso lo stato presente.

C’è da sottolineare, soprattutto, che dal primo secolo dell’era cristiana il perfetto resultativo comincia a diventare rarissimo.

Conclusioni (3)

Avendo sin qui analizzato in tutta la sua valenza morfologico-verbale la parola greca kecaritoméne usata dall’evangelista Luca, possiamo concludere quanto segue:

  1. Ci troviamo dinanzi ad un termine ricercato ed appositamente studiato, visto che Luca scrive in un periodo storico (I sec. d.C.) in cui il perfetto resultativo comincia a diventare rarissimo.
  2. Con questo participio perfetto passivo Luca sottolinea ciò di cui Maria è stata beneficiata, mettendo in risalto non solo lo stato presente ma anche l’importanza dell’azione anteriore che ha prodotto questo risultato, cioè che Maria è stata già da tempo favorita e gratificata da Dio, e bisognerebbe dire dall’eternità visto che Dio è eterno ed immutabile e lo stato in cui Maria si trova al momento dell’annuncio dell’angelo Gabriele è il risultato di un amore e di un favore che non può essere che eterno ed immutabile giacché viene da Dio.
  3. Da ciò si spiega perché il termine è tradotto in latino con la locuzione gratia plena, perché si vuole rendere l’idea che la grazia di cui Maria è stata beneficiata è nella completezza, non tanto in senso quantitativo, ma semmai qualitativo-temporale, cioè in maniera compiuta da sempre e per sempre. E al momento dell’annunciazione viene comunicata una condizione di fatto costante, stativa appunto, si potrebbe dire connaturata con Maria stessa, come per dire che in Maria non vi è stato e non vi sarà nessun ostacolo alla perfezione della grazia e del favore divino nei suoi confronti. Possiamo raffigurare questo concetto come un cerchio senza soluzione di continuità, sulla circonferenza scorre perpetuamente la grazia divina senza che questa sia ostacolata da qualche interruzione, in altre parole dal peccato.

  4. Da alcuni il passo viene tradotto "Ti saluto o favorita dalla grazia", ma ciò va a discapito del senso pieno del termine greco kecaritoméne, e se ne allontana sotto certi aspetti in quanto non rende il senso del favore eterno e compiuto di cui Maria gode. Invece, non potrebbe essere altrimenti, perché se Maria non fosse stata favorita da Dio sin dall’eternità (il che già contraddirebbe l’essenza di Dio che è immutabile ed eterno nelle sue promanazioni di grazia, di amore, nella fedeltà al suo patto, ecc.), non ci sarebbe ragione che spieghi come mai l’evangelista preferisca, anzi dovremmo dire si ingegni, di inserire nella sua narrazione un termine come kecaritoméne, forma rarissima, piuttosto che un altro più consueto e meno ricercato. Ma Luca lo ha inserito proprio per dire che da una parte Dio, eterno ed immutabile, come ha amato ed ha favorito dall’eternità con la sua grazia Maria, così l’amerà e favorirà per l’eternità in modo perfetto, dall’altra Maria, a sua volta, mai ha allontanato da sé questo favore da quando è nata e così sarà per sempre.
  5. Luca sottolinea ulteriormente questa valenza di completezza ed immutabilità nel tempo riferendo due altre espressioni:

    1. "il Signore è con te" (letteralmente "il Signore con te" perché nella versione latina e in quella greca il verbo è assente).
    2. "Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio". (letteralmente "…infatti hai trovato grazia presso Dio").

Riguardo al punto (a), l’espressione indica la presenza costante ed eterna di Dio con Maria. Potremmo dire addirittura che Lei era nella mente di Dio ancor prima che nascesse e dall’eternità visto che la mancanza del verbo dà proprio un senso non temporale come è Dio stesso, cioè oltre il tempo e la storia, eterno appunto.

Riguardo al punto (b), l’espressione resa col verbo greco all’aoristo "hai trovato", eùres (ευ̔ρες), e per influsso del precedente termine kecaritoméne col quale è legata concettualmente tramite la congiunzione "infatti", gàr (γαρ), assume un valore resultativo o perfettivo, sicchι non si riferisce al solo tempo attuale, ma si delinea come risultato presente ed immutabile di un’azione giΰ stabilita ed attuata. In altre parole e volendo invertire il discorso, Maria ha trovato grazia presso Dio perchι non vi θ stato nulla in Lei che puς aver ostacolato né ostacolerà il completo, perfetto ed eterno favore di Dio.

Inoltre, Dio ha tenuto e terrà sempre Maria nella sua grazia, è stato e sarà sempre con Lei, in visione e come conseguenza della sua maternità divina. Infatti, il successivo avverbio esplicativo "ecco" conclude la prima parte del discorso in onore di Maria e come esito naturale e culminante lo lega con la seconda parte, cioè con l’annuncio della sua prossima maternità di origine divina. Infatti, la maternità è per se stessa un segno del beneplacito divino per una donna soprattutto del popolo ebreo, se poi questa maternità riguarda il Figlio di Dio, essa viene vista come una benedizione incommensurabile e straordinaria: "Ecco, concepirai un figlio, lo darai alla luce e lo chiamerai Gesù. Sarà grande e chiamato figlio dell’Altissimo[…]".

  1. A tale scopo ci avvaliamo di un buon testo di grammatica greca, dai quali desumiamo liberamente tutte le spiegazioni di morfologia verbale che seguiranno in questo articolo: Carmelo Restifo, Aurelio Pappalardo, Corso di Lingua greca, 1989, Le Monnier, Firenze.
  2. Per facilitare tutti i lettori ricordiamo che il verbo transitivo esprime un’azione che compie il soggetto, ma che transita verso un complemento oggetto (persona, animale o cosa) direttamente, cioè senza preposizioni (di, a, da, in, con, su, per, tra, fra), es.: Giovanni (soggetto) guarda (verbo transitivo) il cielo (complemento oggetto). Il verbo intransitivo, invece, non ha complemento oggetto, ma si riferisce a ciò che il soggetto stesso fa; es.: Marco (soggetto) esce (verbo intransitivo); Matteo (soggetto) parla (verbo intransitivo).
  3. Per questa sezione desidero ringraziare sin d’ora la gentile consulenza del Prof. Antonino Grasso, docente di Mariologia presso la Facoltà teologica di Sicilia - Istituto superiore di Scienze religiose "San Luca" - Catania.

 

Un docente di Lettere classiche

della redazione del sito http://www.rocciadibelpasso.it /

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